L’epatite C, in Italia
Circa due milioni di italiani convive con l’epatite C, il 3 per cento della popolazione. Ma in alcune aree del Sud la diffusione dell’infezione tocca anche il 25 %.
L’epatite C è la causa principale di mortalità per cirrosi e carcinoma epatico e l’indicazione più frequente al trapianto di fegato.
Due milioni di persone infette. Almeno 3.000 nuovi casi e oltre 10 mila decessi l’anno. Sono questi i numeri dell’epatite C in Italia, un’epidemia che non fa rumore, ma continua a mietere vittime. È infatti la causa principale di mortalità per cirrosi e carcinoma epatico e l’indicazione più frequente al trapianto di fegato.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che lo scorso maggio ha riconosciuto l’epatite C come un problema sanitario di impatto globale, ogni anno 3-4 milioni di persone contraggono l’infezione nel mondo e in totale sono circa 140 milioni quanti vi convivono: il 2,2% della popolazione globale.
Un tasso sovrapponibile a quello che si registra in Italia, dove tuttavia non sono disponibili studi sulla prevalenza dell’infezione da Hcv condotti su un campione rappresentativo dell’intera popolazione. È noto però che esiste un gradiente Nord-Sud, con aree del meridione dove il 25 per cento della popolazione ha contratto il virus nel corso della sua vita. Forti sono anche le differenze per fasce di età: la popolazione più anziana è notevolmente più colpita rispetto a quella giovane. La prevalenza stimate è superiore al 5% nelle persone nate prima del 1940, intorno al 3% in quelle nate tra il 1940 e il 1949, inferiore all’1,5% nei soggetti nati tra il 1950 e il 1959 e ancora più bassa nelle generazioni più giovani.
L’infezione è più frequente nelle persone che fanno o hanno fatto uso di stupefacenti per via endovenosa, negli emodializzati, in quanti hanno ricevuto fattori della coagulazione emoderivati prima del 1987 e trasfusioni o trapianto prima del 1992.
L’infezione
L’agente infettivo che causa l’epatite C è il virus Hcv, uno dei virus epatitici insieme a quelli delle epatiti A, B, D ed E. È stato identificato soltanto nel 1989, tanto che fino ad allora l’epatite C era definita come “non A non B”.
Il virus colpisce soprattutto il fegato stimolando la risposta del sistema immunitario dell’ospite e provocando danni strutturali e funzionali anche molto gravi: in particolare, la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica), che vengono sostituite da un nuovo tessuto di riparazione-cicatrizzazione da cui ha origine la fibrosi epatica. Dalla progressiva sostituzione del tessuto sano ha origine la cirrosi epatica che si verifica nel 20-35 per cento dei malati. Nel 3-5 per cento dei casi, l’epatite dà origine al tumore epatico.
Numeri che fanno dell’epatite C la più letale tra le malattie infettive in Italia e la prima causa di trapianto di fegato (si stima che il 30-40 per cento dei trapianti epatici siano attribuibili alle conseguenze dell’infezione).
Nonostante ciò la maggioranza dei malati è inconsapevole di aver contratto la malattia se non quando essa giunge in fase avanzata: la patologia rimane, infatti, a lungo asintomatica.
La trasmissione
È il sangue, il principale veicolo del contagio dell’epatite C.
Per questo aghi e siringhe riutilizzati, l’uso improprio di strumenti medici e le trasfusioni sono stati a lungo le maggiori fonti di trasmissione dell’infezione.
Oggi, benché i tossicodipendenti rimangano una popolazione a rischio, l’introduzione dello screening obbligatorio del sangue basato sulla ricerca degli anticorpi anti-Hcv, ha cambiato lo scenario.
Il rischio di trasmissione è spesso legato all’esecuzione di piercing, tatuaggi, agopuntura, interventi odontoiatrici ed endoscopie. Un ruolo importante è svolto anche dalla contaminazione di oggetti, il più delle volte comuni, che possono causare piccole ferite (forbici, rasoi, spazzolini, tagliaunghie).
In circa il 5 per cento dei casi l’infezione si trasmette anche per via sessuale. Ma esistono condizioni che aumentano il rischio di trasmissione con questa modalità: la malattia epatica in fase acuta, un’attività sessuale promiscua, lo stato di immunocompromissione e l’infezione da Hiv, la presenza di lesioni genitali.
L’infezione si trasmette nella grande maggioranza dei casi per via orizzontale, vale a dire da individuo a individuo, ma il 3-5% dei contagi avviene per via verticale-perinatale (da madre a figlio). Il rischio di trasmissione verticale può raggiungere il 15-25% nei casi di madri Hiv-positive.
Epatite A, B e C
Benché appartengano alla stessa famiglia, i virus dell’epatite A, B e C causano infezioni con quadri clinici e modalità di trasmissione completamente differenti.
L’epatite A si trasmette quasi esclusivamente per via oro-fecale. Nel nostro paese i fattori di rischio per l’infezione da Hav sono il consumo di frutti di mare, l’abuso di alcolici, il consumo di acqua. Frequente è la trasmissione durante viaggi in aree dove l’infezione è endemica.
A differenza delle altre epatiti, l’epatite A non cronicizza. Frequentemente inoltre è asintomatica, mentre sono molto rare le forme fulminanti.
Dopo la guarigione si ha un’immunità permanente dal virus Hav, quale sia stata la gravità della patologia.
L’epatite B è la forma di epatite più diffusa nel mondo. L’Oms stima siano 350-400 milioni i portatori cronici e che un terzo della popolazione mondiale possegga anticorpi contro il virus (ha quindi contratto il virus o è stato vaccinato nel corso della propria vita). Nonostante la disponibilità di un vaccino, rimane alto il numero di nuovi casi: 4,5 milioni di soggetti contraggono il virus ogni anno.
La trasmissione dell’infezione può avvenire attraverso il sangue, ma anche per via sessuale e transplacentare.
Come l’epatite C, anche l’epatite B può presentarsi in forma acuta o cronica. La complicanza maggiore dell’infezione acuta è l’epatite fulminante che, seppur rara, può richiedere il trapianto di fegato. Le probabilità di una cronicizzazione della malattia sono strettamente legate allo stato di maturità e di funzionalità del sistema immunitario al momento dell’infezione. Se l’infezione è contratta in età adulta le probabilità che si cronicizzi sono prossime al 5 per cento, ma se ciò avviene in età neonatale il rischio arriva al 90 per cento.
2 marzo 2011